A cura di Luciano Faccioli, tempo di lettura 3 minuti
Credo che se ponessimo questa domanda ad un campione rappresentativo di persone la risposta sarebbe “tutti”. Potrebbero esserci però delle puntualizzazioni, ad esempio potrebbe emergere che abbia più diritto di essere felice chi si comporta bene, che rispetta le regole e le persone, a differenza di chi delinque e cerca la sua felicità a spese degli altri.
Però se chiedessimo: “quali bambini hanno il diritto di essere felici?” credo proprio che, all’unanimità e senza puntualizzazioni, tutti sarebbero d’accordo nel rispondere: “tutti i bambini”.
Mi assumo la responsabilità di prendere questa ipotesi come vera e dico: bene! Ma non benissimo.
Mi spiego; l’intenzione di fare in modo che tutti i bambini siano felici credo sia genuina e buona (bene), ma poi nella pratica non mi sembra si riesca sempre ad applicarla (non benissimo). Come dire: c’è la volontà di rendere felici tutti i bambini, ma poi nella pratica la cosa non sempre riesce.
Caliamo il discorso direttamente alla Scuola Calcio e pensiamo alla gestione di un gruppo di bambini. È palese di come sia difficile, se non addirittura impossibile, rendere felici tutti; le variabili che intervengono nei rapporti personali e nella gestione del gruppo sono moltissime e si incrociano con le variabili delle singole persone, ognuna con le sue caratteristiche, le sue aspirazione e le sue aspettative. Alcuni concetti macro però devono essere rispettati perché sono imprescindibili per costruire un ambiente che favorisca la felicità, e quelli sì che sono gestibili.
Quali sono questi concetti macro?
- il rispetto della persona,
- la coerenza educativa,
- la fiducia reciproca.
Il rispetto della persona: significa rispettare la persona nella sua essenza e nella sua particolarità. Ogni persona è unica e irripetibile ed ha diritto alla felicità. In una scuola calcio questo si traduce nella possibilità di ciascuno dei bambini di avere soddisfazione e gioia di giocare, tutti i bambini hanno il diritto di giocare. Badate bene, non di vincere, ma di giocare. In soldoni: si rispettano anche i bambini che quando li metti in campo ti fanno prendere gol.
La coerenza educativa: qualsiasi adulto, nella sua veste di educatore, non può attuare dei comportamenti in contraddizione con quello che professa. Se, ad esempio, dice che non è importante vincere ma divertirsi e poi in partita urla come un ossesso ad ogni errore o peggio, se fa giocare i più bravi e lascia a casa i meno bravi; l’incoerenza tra il messaggio verbale e il comportamento, in modo consapevole o meno, viene percepita, e l’incoerenza pervade l’ambiente e diventa distonia e (peggio) stile comportamentale.
La fiducia reciproca: è importante avere la fiducia dei propri giocatori ed è fondamentale anche avere fiducia in loro. Una relazione franca e trasparente dove la norma è parlare, confidarsi, chiedere, confrontarsi è fondamentale e, insieme al rispetto della persona e alla coerenza educativa, contribuisce a costruire un rapporto di fiducia. E se c’è fiducia reciproca il gruppo funziona, altrimenti no.
Un ambiente di questo tipo, costruito sulle azioni e le pratiche (la legge morale?) e non solo sulle parole e le intenzioni (le regole scritte?), supporta i bambini, li protegge e fornisce loro quel senso di sicurezza di cui hanno bisogno per poter esprimersi e quindi essere felici. Perchè essere felici significa essere se stessi, poter esserlo fino in fondo sentendosi accettati per quello che si è.
Non vorrei che qualcuno storgesse il naso avanzando obiezioni del tipo:
“Perchè protezione e sicurezza? I bambini devono crescere, devono imparare ad andare con le loro gambe e se continuiamo a proteggerli non impareranno mai!”
Dicevo, non vorrei che si pensasse questo perchè se è vero che l’obiettivo principe dello sviluppo della persona sia l’autonomia, è falso che questo avvenga se non si creano situazioni di sviluppo sicure.
Se i bambini non si sentono protetti e non acquisiscono sicurezza, non diventeranno mai autonomi. La cultura italiana su questi temi è un po’ troppo schizoide; da un lato si pretende che i bambini siano piccoli adulti. poi però li si tiene in casa fino ai trent’anni e più, accudendoli in tutto e per tutto: credo sia più salutare trattare i bambini da bambini e gli adulti da adulti. A questo proposito sarebbe anche più opportuno usare etichette verbali adeguate anche alla scuola calcio; giusto per attivare anche una adeguata categoria mentale. Smettiamola quindi di affibiare il sostantivo “ragazzi” ai bambini della scuola calcio e agli istruttori di 40 anni, i primi sono bambini i secondi sono adulti, e ognuno va trattato in modo adeguato al suo livello di sviluppo.
Insomma, è fondamentale trattare i bambini per quello che sono, bambini appunto. Bisogna farli divertire (giocare) tutti, non solo i più bravi, creando un ambiente supportante e sicuro dove possano esprimere liberamente se stessi. In questo modo sì che acquisiranno sicurezza e autonomia, impareranno (ognuno secondo il suo livello) e saranno felici… e probabilmente, una volta arrivati ai giovanissimi, ci saranno anche i numeri per fare una squadra a 11.