a cura di Luciano Faccioli
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Nell’ultimo appuntamento ho scritto, in riferimento alle emozioni, che alcune sono innate e che ci fanno reagire in maniera automatica. Sono punti importanti su cui è bene soffermarci.
Intanto vi dico che, secondo Paul Ekman, le emozioni primarie, quelle cioè presenti innatamente in tutte le persone del mondo, sono: paura, rabbia, disgusto, tristezza, sorpresa e gioia. In realtà a questa lista ne sono state aggiunte altre in seguito, ma la sostanza non cambia. L’altro fatto importante è che le reazioni emotive umane, di fronte alle situazioni della vita, scatenano risposte viscerali che si attivano automaticamente.
Questo significa che ogni persona, in riferimento all’attivazione emotiva scatenata da un evento o da un pensiero, non può fare nulla, non può controllare il suo innesco, può intervenire solo dopo quando potrebbe anche essere troppo tardi, di questo ve ne ho parlato la scorsa settimana; ma meglio riprendere il discorso.
Dopo quello della paura, della settimana scorsa, faccio un altro esempio abbastanza immediato (credo), probabilmente presente alla maggior parte di voi: una reazione emotiva di disgusto.
Di fronte a una pietanza può scattare automaticamente una reazione di disgusto, come dicevo il suo innesco è incontrollato e parte inconsapevolemente. Si tratta di un’emozione primaria e può essere attivata da una repulsione a quel cibo in ordine al suo gusto o odore, ma anche per effetto visivo, vedendo la reazione di disgusto sul volto di un commensale. A mio avviso una reazione di disgusto, e conseguente rifiuto del cibo, può avvenire anche a causa della presunzione che tale cibo sia disgustoso per come si presenta e la conseguente costruzione mentale.
Il disgusto quindi può essere scatenato dall’odore, dal gusto o dalla vista. L’innesco sensoriale è diverso perchè implica dei canali diversi, il risultato finale però è lo stesso: senso di vomito e rifiuto della pietanza.
Quando succede ai vostri figli la gestione è più compiacente (anche se non sempre) se la causa è l’odore o il gusto; in questo caso, probabilmente, sarete più propensi a comprendere la reazione di rifiuto del cibo dato che la pietanza si considera “veramente” intollerata. Quando la causa è visiva e per costruzione di pensiero, si tende ad essere meno tolleranti perché si imputa il rifiuto al fatto che “te lo metti in mente”, tanto più che se la pietanza viene data “mascherata” può anche avvenire che venga mangiata senza nessun problema.
A pensarci bene però in tutti i casi, sia che provenga dal gusto o dalla vista, l’emozione di disgusto è genuina e quindi dovrebbe sempre essere tenuta in considerazione allo stesso modo, magari gestita in modo diverso, ma mai sminuita Nel caso che il disgusto sia attivato dalla vista non è bene banalizzarlo come fosse un capriccio senza senso, perché un senso ce l’ha, probabilmente le caratteristiche fisiche di quel cibo attivano pensieri spiacevoli.
La reazione di disgusto quindi è reale e sempre viene innescata da un’entrata sensoriale; poco conta che sia il gusto o la vista, il fatto è che si attiva il sistema nervoso autonomo innescando una risposta viscerale automatica che provoca, ad esempio, un senso di nausea e il conseguente rifiuto.
Ecco allora l’importanza dell’automatismo delle emozioni e del fatto che, nel caso del disgusto, può essere legata e una esperienza sensoriale diretta (non mi piace il gusto) o indiretta (vedere la pietanza evoca inconsapevoli pensieri spiacevoli con conseguente rifiuto).
In generale quindi, diciamo che quando si attiva il sistema nervoso autonomo, in seguito alla percezione di stimoli esterni, si innesca anche una reazione viscerale che condiziona il comportamento conseguente, e se l’innesco è automatico anche il comportamento conseguente sarà automatico, sarà agito senza pensare.
Penserete, cosa c’entra questo con la scuola calcio?
C’entra eccome dico io, vi faccio un esempio molto comune:
– un bambino nei primi anni di scuola calcio quando prova a dribblare gli avversari non vince mai i duelli e perde sempre la palla
– un altro bambino nei primi anni di scuola calcio dribbla e salta quasi sempre gli avversari con successo, ma ogni volta che dribbla viene sgridato e spesso l’allenatore lo sostituisce per punizione perché non passa la palla
Passa il tempo ed entrambi, ora nei giovanissimi, non saltano mai l’avversario, perché?
– il primo perché è consapevole di non esserne in grado ed attua consapevolmente altre azioni per il bene suo e della squadra;
– il secondo perchè il pensiero di dribblare, cosa che sarebbe in grado di fare, innesca emozioni negative e quindi evita di farlo.
In concreto quindi succede che il primo ragazzino sarà felice, perché ha trovato autonomamente la soluzione che gli permette di gestire una specifica situazione ed il suo correlato emotivo in maniera serena; il secondo sarà molto meno felice perché il suo processo decisionale è dettato dall’esigenza di risolvere lo stato emotivo (viscerale) negativo, portandolo ad agire (inconsapevolmente) in maniera opposta a quello che sarebbero i suoi desideri e le sue propensioni, cioè saltare l’avversario.
Per il secondo, oltre il danno la beffa: lui, bravo a dribblare ma inibito a farlo a causa di un’emozione negativa instaurata da anni di sgridate, non sfrutta appieno le sue potenzialità e così ci rimette sia come giocatore di calcio, perché non sfrutta appieno le sue potenzialità, sia come persona, perché non è felice. Infine dato che, come sappiamo bene, saltare l’avversario è una soluzione molto importante per creare superiorità numerica, succede che oltre a lui ci rimette anche tutta la squadra, rendendo così molto meno felice anche l’allenatore.