E’ online l’ottavo appuntamento con le interviste targate Football Idea!
Oggi abbiamo il piacere di avere ai nostri microfoni FILIPPO GALLI, ex calciatore professionista e attuale consulente per il settore tecnico della FIGC.
Ciao Filippo e grazie della disponibilità, tra i tuoi mille impegni e la grande responsabilità nel Settore Giovanile e Scolastico della FIGC penso che trovare tempo per altro sia difficile.
Allora facciamo così, per agevolarti la cosa iniziamo con il chiederti lo stato dell’arte in Federazione riguardo il calcio giovanile.
Ci sono novità in arrivo?
Premessa doverosa: il mio è un ruolo di consulenza alla FIGC ed in particolare al Settore Tecnico, assegnatomi dal Presidente Demetrio Albertini.
Nello specifico mi occupo della struttura, dei contenuti e dei docenti del corso per RSG che si è tenuto, per la prima volta a Coverciano, lo scorso novembre per ottemperare ad una richiesta dell UEFA ma anche per provare a sollecitare il movimento rispetto all’importanza di un percorso formativo per una figura e per un settore così strategici nel sistema calcio.
Il corso successivo, anch’esso rivolto alle società professionistiche, è cominciato il 24 febbraio ma abbiamo dovuto interromperlo per le note vicende legate al coronavirus.
L’obiettivo è quello di portare a regime il settore professionistico nel più breve tempo possibile per poi aprire il corso alle realtà dilettantistiche.
Qui credo si giochi la vera sfida perché, come spesso accade, la spinta per il cambiamento arriva dal basso.
E a parere tuo, qual’è invece lo stato dell’arte attuale sui campi da calcio?
Cioé i nostri settori giovanili come ti sembra stiano lavorando?
La sensazione generale è che sin dalle categorie più basse, pulcini ed esordienti, si pensi troppo al risultato impedendo così ai giovani calciatori di uscire dalla loro zona di comfort e di affrontare le difficoltà, e quindi gli errori che invece dovrebbero far parte del loro naturale percorso di crescita.
Si gioca di reparto nella fase difensiva, per lo più perimetrali o diretti in quella di possesso, così i giocatori non sperimentano le difficoltà di giocare ‘nel traffico’ e quindi di velocizzare scelte e conseguenti gestì tecnici.
In questo modo credo che venga meno una formazione adeguata del giovane calciatore.
Vale a qualsiasi livello, professionistico e dilettantistico.
Cosa servirebbe secondo te, in prospettiva a lungo termine, al calcio giovanile italiano, sia a livello professionistico che dilettantistico, per ottimizzare l’intervento?
Occorre tempo, è un aspetto culturale.
Paradossalmente si ‘rischia’ più in serie A che nelle serie minori.
Chi lo fa del resto viene spesso accusato di seguire una moda ( costruire da dietro o giocare di palleggio).
In realtà devo essere in grado di porre i miei giocatori nelle condizioni di saper leggere la situazione di gioco ed eseguire la scelta giusta.
Ma per arrivare a questo devo passare da situazioni che, in precedenza, ho definito ‘rischiose’ e, spesso, più che i nostri ragazzi, siamo noi, allenatori, che le rifuggiamo.
Al netto delle competenze tattico-tecniche sport specifiche, quanto pesano secondo te, nell’apprendimento del calcio, le competenze relazionale e comunicative di un allenatore?
E le capacità emotive, l’intelligenza emotiva, ed empatiche?
Quanto contano?
Nel calcio, l’area tecnico-tattica e fisico-atletica, hanno avuto uno sviluppo straordinario anche se non sempre condivisibile.
Oggi i margini di miglioramento sono soprattutto negli aspetti psico-emotivi e relazionali.
Quindi anche tutto ciò che riguarda l’intelligenza emotiva, la capacità di comunicare e di essere empatici.
A questo proposito sono di grande aiuto gli studi recenti fatti sulle teorie dello sviluppo del talento.
Il talento ha sicuramente una componente genetica ma altrettanto importante è il contesto che lo circonda, in cui cresce, quindi le persone e le relazioni che con esse instaura.
Nella tua esperienza di allenatore prima e di direttore del settore giovanile del Milan poi, quanto ti è servita l’esperienza da calciatore di alto livello?
L’essere stato giocatore professionista mi ha facilitato nell’avere avuto, poco dopo il ritiro, un ruolo di rilievo nel settore giovanile del club dove sono cresciuto e dove ho trascorso gran parte della mia carriera.
Ho iniziato infatti come collaboratore di Franco Baresi nella Primavera del Milan per poi, dopo due stagioni, assumerne la guida.
Certamente giocare a certi livelli ha significato acquisire molte conoscenze ma, allenare e avere un ruolo dirigenziale, sono attività molto differenti.
Per questo, l’esperienza come collaboratore e’ stata importante ma ancor di più lo sono stati tutta una serie di incontri fatti negli anni seguenti a cominciare da quello con Andrea Maldera mio secondo alla Primavera e proseguendo con Gualtieri, Zanoli, la Dott.ssa Gozzoli e Baldini, tutte professionalità di alto livello che hanno contribuito alla mia formazione.
Chiudi tu come vuoi: cosa ti senti di dire a tutti coloro che operano nel calcio giovanile italiano?
Si rischia sempre di essere banali ma penso che chi lavora in un settore giovanile abbia la responsabilità, per quel pezzettino che gli compete, del percorso di un ragazzo e che quel pezzettino sia in qualche modo legato a quelli precedenti e a quelli successivi.
Pertanto, la collaborazione tra colleghi, la comunicazione, la curiosità, la capacità di saper aiutare ma anche di saper chiedere aiuto e la volontà di avere un metodo condiviso, siano di fondamentale importanza per il ruolo che riveste.